Intervista a Ismail Fayad, giovane italo-siriano

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Siria_Lumturo


Ismail è un ragazzo di 29 anni, cittadino italiano-siriano laureato in Scienze Storiche e attualmente insegnate. Durante la sua vita si è occupato in diversi momenti e modi di Siria, cercando di dare un contributo interno alla vicenda senza lasciarsi troppo influenzare dal suo essere occidentale. 

Qual è il tuo legame con la Siria?

Il mio legame con la Siria deriva principalmente da mio padre e dalla sua famiglia. Lui è nato lì, in una piccola cittadina al confine con l’Iraq, Deir ez zor, dalla quale è partito a 18 anni prima per studiare e poi per lavorare. È arrivato in Italia nel 1972 e qui ha conosciuto mia madre. Io stesso, così come mia sorella e mio fratello, sono nato in Valle d’Aosta, ma siamo tornati più volte in Siria durante la mia crescita. Dei miei parenti, solo due cugini sono venuti a trovarci tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, quando la politica dei visti per i siriani in Italia era un po’ meno rigida; poi nel tempo, e in particolare dopo l’11 settembre, era diventato sempre più difficile per i siriani spostarsi (non impossibile, ma difficile).

La prima volta che sono andato in Siria è stato quando avevo appena tre anni, nel 1994, e da allora siamo tornati ogni anno, fermandoci per minimo un mese, fino al 2009. Andavamo sempre a trovare la famiglia di mio papà che è molto numerosa e con la quale ho un ottimo rapporto, nonostante negli ultimi anni il legame si sia allentato a causa della lontananza.

Quando andavamo in Siria, per questioni logistiche passavamo sempre almeno cinque o sei giorni a Damasco o Aleppo, le uniche due città dotate di aeroporti internazionali. Non posso dire di conoscere bene nessuna delle due città, ma comunque le ho visitate abbastanza a fondo (sicuramente ho esplorato più a fondo Damasco e Aleppo che Roma e Milano, ecco). Città diversissime rispetto alla sonnolenta Deir ez Zor: Damasco, internazionale ed elegante (come un po’ tutte le capitali), Aleppo caotica e coloratissima, con il suo suq labirintico e i clacson squillanti fino a notte inoltrata. Poi sono stato diverse volte a Palmira, in arabo Tadmor, che si trovava proprio sulla strada che collega Damasco a Deir ez Zor.  Capitava abbastanza spesso che da Deir ez Zor andassimo nelle campagne circostanti dove avevamo alcuni terreni, e lì era un mondo a parte perché in Siria, come d’altronde in molti paesi del mondo arabo,  la dicotomia città/campagna a livello di stili di vita, è ancora più marcata che da noi.

Dove e come parli di Siria?

Il fatto di avere questa doppia identità, italiana e siriana, emerge ogni volta che mi presento. Il mio nome di origine chiaramente straniera mi classifica come “non italiano” ma la mia vita è sempre stata in Italia. Questo mi ha permesso di avere una chiave di lettura esterna, occidentale, di ciò che avveniva e avviene tutt’ora in Siria ma mi ha anche permesso di avere un punto di vista interno tramite il confronto con mio padre o con i miei parenti che ancora vivono lì.

Ho iniziato ad interessarmi della mia metà araba fin da giovane, tramite i discorsi in famiglia, ma dall’inizio della guerra ho notato che non se ne parlava abbastanza e ho cercato di dare il mio contributo: dal 2013 al 2019 ho curato più di una decina di interventi l’anno nelle scuole di diverso grado per spiegare le dinamiche del conflitto e la storia della Siria; ho anche curato una pagina Facebook, L’Ibis eremita,  dove pubblicavo una rassegna stampa settimanale di articoli internazionali sulla Siria; tuttavia era un lavoro molto stressante, impegnativo e coinvolgente dal punto di vista personale quindi non ho continuato; Ho anche collaborato ad un libro scritto da Rumiz e Kyenge, “Dal Libro dell’esodo, e pubblicato da Piemme nel 2016.

Come ti parlano i tuoi familiari della situazione in Siria?

Più che di politica, con i miei familiari in questi anni si è parlato dell’influenza della guerra sulla loro quotidianità: la paura per i bombardamenti, le difficoltà nel reperire il cibo, medicine e acqua, i blackout continui e prolungati. La vicinanza della nostra città all’Iraq,  e le ingenti risorse energetiche in quella regione l’hanno inoltre resa una delle più instabili, in cui negli ultimi anni si sono registrate le maggiore tensioni tra i diversi gruppi armati.

In particolare tra il 2012 e 2016/17 i racconti erano molto duri. Per un certo periodo Deir ez Zor cadde anche nelle mani dello Stato islamico, rendendola bersaglio sia della violenza degli islamisti sia dei bombardamenti della coalizione internazionale anti-Isis. In quel periodo trovare del cibo, e soprattutto alimenti proteici, era quasi impossibile. I miei familiari accumulavano sacchi di riso e granaglie nella cantina e qualsiasi altro genere alimentare, se trovato, diventava occasione di festa: un pollo al mercato, un sacco di foglie di tè (che prima era un rito quotidiano). Nonostante tutti i miei parenti siano musulmani sunniti hanno avuto come tutti ripercussioni a causa del dominio dello Stato Islamico nella regione. Anche un breve spostamento diventava occasione di pericolo.

La casa è stata bombardata diverse volte ed ora è inabitabile. Una delle mie zie è stata ferita in uno di questi bombardamenti,  e costretta a trasferirsi a Damasco in modo rocambolesco per potersi curare. Ora, nella capitale, vivono tutti in un contesto decisamente più sicuro.

Che cosa ne pensi dell’evolversi della situazione in Siria negli ultimi anni?

La mia famiglia non è contraria al regime di Assad, anzi, diversi miei parenti guardano con favore al governo del presidente siriano. Quando ero ragazzino ricordo che spesso i miei familiari mi descrivevano la Siria come un paese sì autoritario, ma con diversi elementi di “democrazia”: ai cittadini erano garantite garanzie materiali importanti, come un’istruzione pubblica per tutti, femmine e maschi, un discreto servizio sanitario, una “laicità” delle istituzioni che manca nella maggior parte dei paesi arabi. Con il tempo però ho capito che non si può vivere di sole cose materiali, serve anche la libertà di partecipare attivamente alla vita politica del proprio paese e questa partecipazione è impedita. All’inizio della rivoluzione la speranza era in un allargamento democratico della vita politica, ma si è avuta una degenerazione di una rivolta inizialmente pacifica nella quale hanno interferite diverse grandi potenze (Iran, Russia, Turchia, Stati Uniti, Francia…), trasformandola così in un conflitto per procura. L’interesse nei confronti della Siria da parte di questi paesi è sicuramente da attribuire alla volontà di accaparrarsi un paese strategicamente importante e relativamente ricco di risorse energetiche.

Ora la guerra è in una situazione di stallo, è diventata un conflitto a bassa intensità, ma ci sono tutte le premesse perché la tensione torni ad alzarsi. Il paese è diviso in aree di influenza (russa, turca, statunitense…) e dunque privo della sua unità territoriale. Si può che dire che alla fine della fiera tutti i contendenti hanno perso, e all’orizzonte non si intravede nessuna soluzione del conflitto, che si prolunga ormai da quasi dieci anni.

In alcune zone del paese la popolazione sta tornando a vivere in maniera “normale”, ma l’economia siriana è ridotta allo stremo e in molti hanno dovuto e stanno ancora abbandonando il paese. Da questo punto di vista Io e mia sorella abbiamo cercato di dare il nostro contributo andando a operare come volontari in alcuni campi profughi. Mia sorella è stata per circa 6 mesi come operatrice per una ONG in un campo ad Akkar, regione nel nord del Libano. Lì c’erano diversi siriani di Homs che vivevano in una situazione di estrema povertà, sopravvissuti solo grazie al sostegno dalla comunità internazionale. Io invece sono stato nel 2016 a Eidomeni, tra Grecia e Macedonia, un campo la cui popolazione era composta soprattutto da iracheni e molti siriani, in alcuni casi oppositori di Assad, ma molto più spesso persone apolitiche o filo-governative fuggiti da regioni della Siria in cui le condizioni di vita erano ormai troppo difficili. Alcuni di questi profughi hanno avuto l’opportunità di raggiungere l’Europa occidentale e di rifarsi una vita, ma molti continuano a vivere nel limbo dei campi profughi o dei centri di accoglienza, senza alcuna prospettiva per il futuro.

Legami quotidiani con la Siria

Essendo una “famiglia mista”, per quanto riguarda l’ambito culinario e quello delle tradizioni cerchiamo di far coincidere le due culture: anche se nessuno di noi è particolarmente religioso, qui in Italia festeggiamo in modo “laico” sia il Natale che l’Eid, la festa di fine Ramadan. Mangiamo quotidianamente pasta, ma anche hummus o altri piatti tipici della cucina siriana. Ovviamente, tutto quello accade in Siria e nel mondo arabo in generale è oggetto delle nostre conversazioni quotidiane.

Sicuramente non ho intenzione di andare a vivere in Siria in futuro, ma la  nostalgia è forte e mi piacerebbe tornarci. Al momento non è un paese sicuro, soprattutto nella zona di Deir ez Zor, dove sono frequenti gli attentati e piccole scaramucce tra gruppi armati. Inoltre nell’area i servizi essenziali, e in particolare gli ospedali, continuano ovviamente ad essere carenti. Più di tutto, però, sarebbe forse troppo doloroso tornare per trovare la nostra città d’origine e i luoghi della nostra infanzia ridotti a un cumulo di macerie.

Intervista a cura di Laura Pisano, dicembre 2020

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