FFF | Asia, le grandi multinazionali

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A cura di Fridays for Future – Valle d’Aosta

Le grandi multinazionali

Fonti: TRECCANI / BBC

Le multinazionali sono imprese di grandi dimensioni, la cui proprietà e direzione si trovano in un paese, mentre spesso gli impianti di produzione e le strutture di distribuzione sono dislocati in paesi diversi, e le cui decisioni hanno quindi peso politico ed economico anche fuori dal paese d’origine.

Alcuni dei più grandi marchi di vendita per quel che riguarda tecnologia, logistica, cibo, caffè e bevande analcoliche sono multinazionali, come ad esempio Coca-Cola, Nestlé, PepsiCo e Amazon. Queste aziende spesso adattano i propri prodotti per soddisfare i consumatori nei diversi paesi mantenendo il proprio marchio riconoscibile in tutto il mondo. Tale strategia economica è nota anche come “glocalizzazione“.

Fonte: best5.it

L’obiettivo finale per un’azienda in crescita che vuole aumentare la portata delle proprie operazioni è competere all’estero, dunque diventare una multinazionale. A queste grandi imprese può essere riconosciuto un ruolo per l’aumento, certe volte relativo, dei posti di lavoro, a fronte di una serie di effetti negativi di non indifferente gravità:

  • Le multinazionali fanno affidamento su lavori poco retribuiti e che prevedono spesso mansioni ripetitive all’interno di grandi catene di montaggio;
  • I profitti dei paesi ospitanti sono spesso non garantiti, poiché i guadagni tornano alla sede centrale dell’impresa;
  • Non è raro che la responsabilità sociale venga trascurata al fine di aumentare il profitto attraverso scorciatoie tutt’altro che etiche;
  • Lo sfruttamento della forza lavoro fa sì che i dipendenti lavorino al di sotto del salario minimo e per orari più lunghi. Infatti, le multinazionali posizionano frequentemente i propri impianti di produzione nei paesi dove le leggi per la tutela dei lavoratori sono meno rigide;
  • Le grandi imprese sfruttano e inquinano l’ambiente, agevolate dalla scarsità delle leggi al riguardo presenti in determinati paesi;
  • Le multinazionali, per ottenere accordi a loro proficui sulla forza lavoro, sulle spese generali o sull’inquinamento, potrebbero minacciare di ritirarsi da un paese;
Fonte: bbc.com

La globalizzazione ha enormemente aumentato il numero di multinazionali in tutto il mondo.

Margherita Facchini

Le multinazionali in Cina: fallimenti e proposte

Fonti: NEW YORK TIMES / OXFORD RESEARCH

In un articolo comparso sul New York Times il 13 giugno del 2017, si riporta lo studio condotto in Cina dagli ispettori per il Ministero della Protezione Ambientale. Secondo un rapporto dell’agenzia di stampa statale, gli ispettori ambientali nel nord della Cina hanno scoperto che quasi 14.000 aziende, o il 70% delle aziende esaminate, non sono riuscite a soddisfare gli standard ambientali per il controllo dell’inquinamento atmosferico.

(Gli ispettori che lavorano per il Ministero della Protezione Ambientale hanno ottenuto quei risultati dopo due mesi di lavoro in 28 città del nord della Cina). Le aziende e le industrie variavano ampiamente, comprese attività come la lavorazione della lana e la produzione di mobili.

Più di 4.700 aziende si trovavano in luoghi non autorizzati, non avevano i certificati appropriati e non erano riusciti a soddisfare gli standard sulle emissioni, afferma il rapporto.

Anche se i leader cinesi hanno promesso di reprimere gli inquinatori, le fabbriche continuano a contribuire a livelli gravi di inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo.

I cittadini cinesi citano il diffuso inquinamento del Paese come una delle questioni che li preoccupano maggiormente.

L’annuncio, datato 10 giugno 2017, mette anche in dubbio se la Cina possa colmare un vuoto di leadership globale sulla questione del cambiamento climatico. Pur essendo il più grande emettitore di gas serra al mondo, ha esortato i paesi a rispettare l’Accordo di Parigi sul clima, anche se l’allora presidente Trump stava ritirando gli Stati Uniti (storicamente il più grande emettitore) dall’accordo. Il neo eletto presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, in numerose interviste ha ribadito il suo intento di rimettere gli Stati Uniti nell’Accordo di Parigi e di iniziare un’importante politica ambientale.

Fonte: wikipedia.org

La Cina si è impegnata a raggiungere determinati obiettivi per cercare di limitare o ridurre le emissioni, e i suoi leader affermano che intendono limitare l’uso del carbone.

Il consumo di carbone, la principale fonte di gas serra, è rimasto invariato o in calo negli ultimi anni, soprattutto a causa del rallentamento della crescita economica. Ma le imprese statali che bruciano carbone, comprese quelle nei settori dell’energia, dell’acciaio e del cemento, rimangono potenti e sfidano gli sforzi ufficiali per limitare il consumo di carbone.

Il carbone è anche la principale fonte di inquinanti atmosferici, compreso il particolato fine comunemente noto come PM 2.5, ritenuto dagli scienziati estremamente dannoso. Le fabbriche di acciaio a carbone dell’Hebei, la provincia che circonda Pechino, sono enormi emettitori di inquinanti atmosferici e gas serra.

Il Ministero ha pubblicato annunci con alcuni risultati dei turni di ispezioni. L’ultimo annuncio ha affermato che su 467 imprese ispezionate in un recente round 350 di queste imprese, ovvero il 75%, presentava “problemi ambientali”. I problemi includevano la mancanza di meccanismi di controllo dell’inquinamento e strutture per il trattamento delle acque reflue.

Le città nel nord della Cina hanno uno dei peggiori livelli di inquinamento atmosferico del mondo, rivaleggiato solo dai centri urbani in India e Iran. Li Keqiang, il premier cinese, ha promesso di portare avanti una “guerra all’inquinamento”.

A volte, i funzionari di Pechino hanno dovuto emettere un “allarme rosso”, ordinando la chiusura delle scuole e dicendo alle persone di rimanere a casa a causa dello smog opprimente.

L’esempio sopra riportato riguarda la Cina ma è indicativo per tutto il continente asiatico. Le norme vigenti in quei paesi o non sono sufficienti o non vengono rispettate. 

In futuro, il governo cinese potrebbe seguire due strade. La prima è aumentare l’uso dei meccanismi di mercato e degli strumenti di informazione per consentire e incentivare più parti interessate, come i consumatori, le organizzazioni non governative e le comunità, a impegnarsi nello sviluppo e nell’applicazione delle normative ambientali, ad esempio attraverso il cap-and-trade system, programmi di divulgazione delle informazioni e assicurazioni ambientali. Tuttavia, le prove esistenti mostrano che l’utilità di questi nuovi strumenti è limitata.

Un altro percorso è sviluppare nuovi meccanismi per rafforzare l’applicazione dei regolamenti tradizionali di comando e controllo. Gli esempi includono rendere la prestazione ambientale un indicatore chiave di prestazione (KPI) nelle valutazioni delle prestazioni dei funzionari governativi o sfruttare il potere dei settori finanziari. Questi approcci sono una nota in calce al nuovo argomento a favore dell’autoritarismo ambientale, che suggerisce che i regimi autoritari, stabilendo regole autoritarie, possono essere più capaci di gestire complesse pressioni ambientali.

Fonte: researchgate.net

Bianca Massino

Impatto sull’ambiente e sul clima delle grandi multinazionali

Fonti: FOCUS / GREEN PEACE / IPCC

In molte città dei paesi in via di sviluppo dell’Asia la migrazione della forza lavoro da centri agricoli isolati a settori industriali densamente popolatiha aumentato l’urbanizzazione e l’espansione dell’area suburbana in cui si trovano le industrie. Questa situazione ha causato gravi problemi di traffico, di alloggi e sanitari. 

La crescita industriale dei paesi in via di sviluppo ruota in maniera sostanziale attorno alla trasformazione delle materie prime in prodotti industriali come acciaio, carta e prodotti chimici. Negli ultimi anni, la produzione di prodotti chimici industriali si è spostata sempre più dai paesi sviluppati ai paesi in via di sviluppo dell’Asia.  Non soltanto questi processi richiedono molte risorse, ma per di più le industrie che si occupano della produzione di elettricità, della raffinazione del petrolio, dell’estrazione mineraria, della produzione di carta e della concia delle pelli tendono a produrre una quantità sproporzionatamente grande di rifiuti pericolosi e tossici, e hanno già causato grave inquinamento dell’acqua e dell’aria. 

Inoltre, a causa della scarsa capacità normativa, i paesi in via di sviluppo sono diventati sitipreferenzialiper lo scarico di rifiuti tossici da parte di società multinazionali.

Fonte: euro-asiaindustry.com

Uno studio condotto dall’University College di Londra e dalla Tianjin University di Tientsin (Cina) ha rivelato quanto gli investimenti e le pratiche produttive delle multinazionali impattino sulla salute del pianeta. I risultati mostrano infatti che tra il 2011 e il 2016 circa il 20% delle emissioni globali di CO2 sono state generate dalle multinazionali di tutto il mondo. Nonostante durante il periodo studiato la percentuale sia scesa dal 22% al 18,7% grazie all’adozione di pratiche industriali più sostenibili, bisogna comunque tener conto che si tratta di circa un quinto delle emissioni globali.

Per di più, sempre più spesso le multinazionali tendono a ridurre il proprio impatto ambientale nel paese d’origine spostando le sedi di produzione, e quindi di fatto le emissioni, all’estero, di solito in paesi in via di sviluppo.

Due esempi: nel periodo di tempo studiato, le imprese statunitensi hanno aumentato le proprie emissioni di CO2 in India da circa 50 milioni di tonnellate a 70, mentre la Cina è passata, nel Sudest asiatico, da meno di un milione di tonnellate a 8.

DEFORESTAZIONE per OLIO DI PALMA

Tra il 2010 e il 2015 numerose multinazionali e operatori di materie prime si sono impegnati a porre fine alla deforestazione entro il 2020. Nonostante ciò, la distruzione delle foreste indonesiane a causa dell’espansione delle piantagioni di palma da olio non ha mostrato alcun segno di rallentamento, anzi.

Fonte: Greenpeace

Il rapporto internazionale “Burning down the house” condotto da Green Peace nel 2019, dimostra come le multinazionali del settore alimentare (tra le prime responsabili: Unilever, Mondelēz, Nestlé e Procter&Gamble) e i principali commercianti di olio di palma (Wilmar, Cargill, Musim Mas e Golden-Agri Resources), continuando ad acquistare olio di palma, collaborino a causare la deforestazione e gli incendi che devastano l’Indonesia.                              

Ecco, nello specifico, i dati raccolti da Green Peace:

  • 180.000 ettari: l’area distrutta tra il 2015 e il 2018 dai produttori da cui Unilever si è rifornito.
  • 140.000 ettari: l’area distrutta tra il 2015 e il 2018 dai produttori da cui Wilmar si è rifornito.
  • 900.000: le persone che, in Indonesia, hanno sofferto di infezioni respiratorie acute a causa della densa nube di cenere e fumo generata dagli incendi.
  • 465 milioni di tonnellate: la quantità di CO2 emessa dagli incendi che hanno devastato l’Indonesia tra il 1° gennaio e il 22 ottobre 2019. La stessa quantità di emissioni totali annue di gas a effetto serra prodotte dal Regno Unito.

INQUINAMENTO da PLASTICA

Ogni minuto di ogni giorno, l’equivalente di un camion carico di plastica entra nei mari del pianeta e gli imballaggi monouso contribuiscono in modo consistente a generare questo inquinamento.  Le grandi multinazionali sono le forze predominanti dietro la grave crisi ambientale dell’inquinamento da plastica: sono infatti le principali produttrici di confezioni e imballaggi di prodotti monoporzione avvolti in plastica, creati appositamente per attirare l’attenzione dei consumatori.

Fonte: Greenpeace

Nel 2018, Green Peace ha diffuso il rapporto “Una crisi di convenienza. Le multinazionali dietro l’inquinamento da plastica del Pianeta” nel quale si espongono i risultati di un questionario sull’uso di plastica monouso sottoposto a undicigrandi aziende produttrici di beni di largo consumo (Fast Moving Consumer Goods, FMCG): Coca-Cola, Colgate-Palmolive, Danone, Johnson e Johnson, Kraft Heinz, Mars, Nestlé, Mondelez, PepsiCo, Procter & Gamble e Unilever. Ecco le conclusioni presentate da Green Peace:

• La maggior parte delle aziende intervistate non conosce o non ha condiviso i dati relativi alle quantità di imballaggi prodotti che vengono riciclati né tantomeno è a conoscenza della destinazione dei propri imballaggi alla fine del loro ciclo di vita. Nessuna delle aziende ha quindi fornito dettagli completi sulla produzione e la tracciabilità degli imballaggi in plastica monouso utilizzati, anche se molte affermano di volerlo fare in futuro.

Nessuna delle multinazionali sottoposta al questionario è attualmente impegnata ad eliminare gradualmente la plastica monouso e nessuna ha fissato degli obiettivi precisi per ridurre l’impiego di plastica usa e getta. Le risposte ricevute dimostrano che, nonostante la volontà di un impegno futuro da parte di alcune aziende, non esistono piani concreti per affrontare seriamente questa crisi ambientale alla radice e, in modo particolare, volti a ridurre la crescente produzione e commercializzazione di plastica monouso.

• La maggior parte delle aziende di FMCG sta aumentando la quantità di plastica monouso utilizzata. Il rapporto di Green Peace sottolinea la totale dipendenza delle aziende dalla plastica monouso nel loro business. 

Inoltre, le quattro multinazionali che si ritiene abbiano i volumi di vendita più elevati di prodotti in plastica monouso (Coca Cola, PepsiCo, Nestlé e Danone) sono le stesse i cui imballaggi si trovano con maggior frequenza tra i rifiuti abbandonati in tutto il mondo, come evidenziato da un rapporto pubblicato dalla coalizione Break Free From Plastic. 

Fonte: fashionindustrybroadcast.com

• Le soluzioni proposte dalle multinazionali, riguardanti principalmente la riciclabilità o il riciclo dei prodotti, non sono sufficienti per affrontare la gravità dell’inquinamento globale da plastica. Per di più, nonostante gran parte delle undici aziende abbia riconosciuto la validità di alcune soluzioni (come anche                                     

l’uso di plastica riciclata), nessuna ha investito in programmi di riduzione a monte o in sistemi di consegna e distribuzione alternativi.

Margherita Facchini

Impatto di chi consuma i prodotti delle grandi multinazionali – Fast Fashion

Fonti: FOCUS

Ci basta fare una breve analisi sugli indumenti che portiamo per renderci conto di quanto i prodotti importati dall’Asia siano, per quantità, rilevanti. Non è certo una scoperta, eppure preferiamo ignorare. Questo è ciò che nel libro “Energia per l’astronave terra” viene definito il “dietro le quinte”. Lo sapevate che il 30% delle emissioni di C02 dei Paesi europei è “importato” tramite merci prodotte dalle economie emergenti, in particolare dalla Cina?

Parlando solo dei rapporti commerciali con l’Italia dal sito del Governo si osserva che nel 2019 la Cina ha esportato articoli di abbigliamento dal valore di 2.531,49 milioni di euro. Un dato impressionante, tenendo conto che riguarda solo la Cina e l’Italia. 

In questo scenario un ruolo importante viene rivestito dalla Fast Fashion, ovvero quel settore di abbigliamento che realizza prodotti di bassa qualità a prezzi ridotti e che lancia continuamente nuove collezioni a tempi brevissimi.  Nel suo breve ciclo di vita un indumento della Fast Fashion produce emissioni inquinanti in ogni fase della sua lavorazione. Innanzitutto, spesso questi abiti sono prodotti in Asia o comunque lontani da chi li indosserà, e questo richiede un’enorme quantità di energia anche solo per il trasporto. Inoltre, la maggior parte degli indumenti più comuni sono realizzati soprattutto in sintetico che a ogni lavaggio rilascia una grande quantità di microfibre indistruttibili che andrà a finire prima o poi nel mare. 

Ogni secondo viene buttato l’equivalente di un camion carico di vestiti e in Italia solo il 12% dei rifiuti tessili viene riciclato.

Fonte: The Guardian

Il settore tessile contribuisce in modo significativo alle emissioni globali di gas serra con le sue 1.7 miliardi di tonnellate di C02 all’anno secondo quanto afferma la WWF (World Wide Fund for Nature). Secondo le previsioni il fabbisogno di abbigliamento passerà da 62 milioni di tonnellate nel 2015 a 102 milioni nel 2030, aumentando enormemente l’impatto sul clima. 

Zeta

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